Prendete un pallone. Da calcio, da basket, da pallamano; non importa. Sparatelo con un cannone e riprendete la scena con telecamere ad altissima definizione. Ora riesaminate il video al computer – vi è concessa tutta la potenza computazionale di cui avete bisogno – e provate a determinare, istante per istante, posizione e velocità del pallone. Se siete stati abbastanza accurati, riuscirete senza dubbio a portare a termine il processo di misura in modo più che soddisfacente: i numeri che otterrete coincideranno, con ottima approssimazione, con quelli previsti dalle equazioni dei modelli teorici che descrivono il moto del pallone. E potete star certi che il pallone, con o senza telecamere, avrebbe percorso esattamente la stessa traiettoria con le medesime caratteristiche. In altre parole, e generalizzando: ai sistemi macroscopici poco importa chi li sta osservando, e come lo sta facendo. O ancora, riprendendo un motto spicciolo da libro di filosofia dell’autogrill, “un albero che cade nella foresta fa rumore eccome, anche se non c’è nessuno ad ascoltarlo”.
Ora è il momento di fare un passo in avanti: rimpicciolite il pallone fino a farlo diventare un oggetto quantistico (un elettrone, un fotone; non importa) e ripetete l’esperimento con un mini-cannone e una mini-telecamera. Vi accorgerete che le cose cambieranno parecchio. Senza tirarla troppo per le lunghe, non riuscirete più a concludere la misura come prima. Perché la vostra mini-telecamera perturberà irrimediabilmente la traiettoria del mini-pallone, diventando di fatto parte integrante e attiva dell’esperimento. È uno dei capisaldi più sottili e controintuitivi della meccanica quantistica, di quelli che mettevano a disagio perfino Albert Einstein: il processo di misura – e con esso l’osservatore che la compie – non è in alcun modo scindibile dall’oggetto misurato. Di più: il processo di misura è addirittura distruttivo, nel senso che perturba irrimediabilmente e irreparabilmente l’osservabile. “Un albero (quantistico) che cade nella foresta fa un rumore diverso a seconda di chi lo ascolta e di come lo ascolta”.
La complessa relazione tra osservabile, processo di misura e osservatore è stata a lungo oggetto di dibattito nella comunità scientifica e ha dato luogo, nella storia, a diverse interpretazioni – la prima delle quali, e la più famosa, è stata la cosiddetta interpretazione di Copenaghen, formulata a metà degli anni cinquanta a partire dai lavori di Niels Bohr e Werner Heisenberg. Secondo l’interpretazione di Copenaghen, domande come “dov’è una particella quantistica prima di misurarne la posizione” sono prive di senso, in quanto, per l’appunto, la posizione di una particella non è determinata finché non la si misura, e anzi, ancora una volta, il processo di misura concorre a determinarla. Oggi un nuovo studio, condotto da un’équipe di scienziati della Heriot-Watt University a Edinburgo (cui hanno partecipato anche due italiani, Massimiliano Proietti e Francesco Graffiti), si è aggiunto alla lista di esperimenti specificamente progettati per chiarire il ruolo dell’osservatore nel processo di misura e in particolare il suo rapporto con la realtà. Il lavoro, pubblicato in pre-print su ArXiv, è particolarmente importante – tanto che il fisico Carlo Rovelli si è detto “molto eccitato” per i risultati – perché si tratta della versione reale di un esperimento ideale proposto per la prima volta da Časlav Brukner, fisico teorico dell’università di Vienna.
L’esperimento è piuttosto complesso. “Abbiamo realizzato sperimentalmente”, racconta a Wired Fedrizzi, coordinatore dell’équipe di ricerca che ha effettuato lo studio – austriaco, a dispetto del nome: ci ha detto di avere lontane origini italiane ma che suo padre “era troppo pigro per insegnarmi la lingua” –, “l’esperimento immaginato da Brukner. La cosa funziona così. Abbiamo quattro osservatori in totale, collocati in posti diversi: Alice e la sua amica Amy, Bob e il suo amico Brian. Amy e Brian si trovano ciascuno nel proprio laboratorio; viene loro inviato un fotone a testa. I due fotoni inviati ad Amy e Brian sono tra loro entangled”. https://www.youtube.com/embed/O8Ia3kcQydc?feature=oembed
Piccola pausa: cosa vuol dire entangled? Il termine entanglement, che non ha una precisa traduzione italiana, definisce un bizzarro (l’ennesimo) fenomeno quantistico in cui due o più particelle sono intrinsecamente collegate tra loro in modo tale che le azioni o le misure eseguite su una di esse abbiano effetto istantaneo e irreparabile sulle altre. Con questo in mente, torniamo all’esperimento. Amy crea un’altra coppia di fotoni, un cosiddetto fotone di test e un fotone di sistema. Il primo viene utilizzato per misurare il fotone che le è arrivato da fuori (non scendiamo troppo in dettagli tecnici per non complicare ulteriormente le cose: basti sapere che un fotone può essere utilizzato per misurare lo stato di un altro fotone); il secondo, quello di sistema, viene entanglato a quello di test e diventa, in questo modo, l’osservatore dell’esperimento.
A questo punto, Amy invia il fotone originale e il fotone di sistema alla sua amica Alice, che si trova in un’altra stanza. Alice, a questo punto, può decidere se guardare direttamente il fotone di sistema (il che è equivalente a chiedere ad Amy cosa ha misurato, chiamiamolo risultato A0) o può decidere di usare uno dei due fotoni per misurare l’altro, facendo cioè la propria misura senza chiedere nulla ad Amy (risultato A1). Brian fa esattamente lo stesso, e invia i propri fotoni a Bob: come Alice, Bob può decidere se replicare l’osservazione di Brian, ottenendo il risultato B0, o fare una propria osservazione, ottenendo il risultato B1. Fine spoiler. Il conundrum è tutto qui: la meccanica quantistica prevede che i risultati A1 e B1 (cioè i fatti – la realtà – osservati da Alice e Bob) possano essere diversi da A0 e B0 (cioè la stessa realtà osservata dai loro amici Amy e Brian).
Alla base di questo processo, ci spiega Fedrizzi, ci sono tre assunzioni della meccanica quantistica. Uno: la cosiddetta assunzione di libera scelta, ovvero il fatto che Alice e Bob sono liberi di effettuare la misura che vogliono. Due: l’assunzione di località, ovvero il fatto che la scelta di Alice non influenzi i risultati ottenuti da Bob, e viceversa. Tre: l’assunzione di indipendenza dell’osservatore, ossia il fatto che esistano fatti non influenzabili da chi li osserva. “Il nostro esperimento”, dice il ricercatore, “ha mostrato che queste tre assunzioni sono incompatibili con le previsioni della meccanica quantistica. Sostanzialmente, ripetendo l’esperimento tante volte abbiamo ottenuto un risultato che ci dice che le tre assunzioni non possono essere contemporaneamente vere. Da studi precedenti sappiamo che l’unica opzione possibile è rigettare la terza assunzione, cioè che i fatti sono oggettivi e indipendenti da chi li osserva”. Ossia che la realtà (almeno quella quantistica) è definita solo rispetto al suo osservatore. https://www.youtube.com/embed/ARWBdfWpDyc?feature=oembed
Per comprendere meglio il senso e l’importanza dello studio, incuriositi dalla sua manifestazione pubblica di interesse, abbiamo chiesto delucidazioni proprio a Carlo Rovelli, fisico del Centre de Physique Theorique di Luminy, che ci ha aiutato a digerire la scomoda affermazione secondo la quale non esisterebbe alcuna realtà oggettiva: “Io credo che l’esperimento di Fedrizzi e colleghi supporti proprio la conclusione secondo la quale non esistono fatti indipendenti dall’osservatore”, ci ha spiegato. “Ma attenzione, non c’è nulla di soggettivo, di mentalistico, di idealistico e neppure di empiristico in questo. L’affermazione va intesa nello stesso senso in cui non esiste una velocità indipendente dall’osservatore: la velocità è sempre la velocità di un oggetto rispetto a un altro oggetto. Nello stesso modo, i fatti sono sempre fatti di un sistema rispetto a un altro. Gli osservatori non sono né spiriti, né menti, né altro: sono arbitrari sistemi fisici”.
Gli chiediamo ulteriori lumi, allora, su cosa sia davvero un osservatore: possiamo veramente considerare osservatore un fotone, come implicitamente sottinteso da Fedrizzi? “Il problema della interpretazione di Copenaghen”, dice Rovelli, “è proprio questo: cioè non si dice mai cosa si intenda per osservatore. È per questo che è stata poi formulata la cosiddetta interpretazione relazionale, una versione moderna e più completa di quella di Copenaghen, che cerca di ripulirla dai suoi aspetti confusi e chiarirne le conseguenze. Nell’interpretazione relazionale, qualunque sistema fisico – anche un fotone, dunque – può essere considerato come osservatore, e qualunque interazione fisica può essere trattata come una misura. Però, ripeto, il risultato della misura non è vero in assoluto, ma solo relativamente al sistema osservatore. Tutte le quantità fisiche, in questo senso, sono relazionali. Ma non significa soggettive: significa semplicemente che sono quantità che corrispondono a due sistemi e non a uno solo”.
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